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Juan Carrito, orso buono.

[Juan Carrito]

Non state male più, asciugate il pianto.
Il paradiso è bello.
Tutto è bianco,
come la neve che ho aspettato tanto
e che ho arrossato col mio sangue ieri.
Ero distratto dentro ai miei pensieri,
avevo corso tanto, ero un po’ stanco,
seguivo un uccellino, per giocare.
Poi quella grande luce, quel rumore.
Lo schianto.
Poi il silenzio ed il dolore.
M’hanno curato, con dolcezza e amore,
fino a che non mi si è fermato il cuore.

Che viaggio breve il mio. Ora è finito,
però mi sono tanto divertito.
Chiedo perdono se un po’ ho disturbato,
ma so che uguale in tanti mi hanno amato.

Marazico – ©

Parole non mie ma che fanno riflettere.

Loro e la discoteca.

Oggi. Stasera. Sabato sera. Ho in casa due quindicenni (mia figlia e la mia figliastra) che dalle cinque del pomeriggio si sono appropriate del bagno e degli specchi di tutti gli armadi che abbiamo nelle camere da letto. Stanno devastando il già poco ordine in quegli armadi e hanno sparso trucchi ovunque. Si stanno cambiando, ricambiando, stanno cercando il giusto trucco e il perfetto “outfit”, come dicono loro. Il tutto perché loro stasera devono andare in discoteca. E guarda un pò, io, che ho tirato su il culo dal letto alle 4 di stamattina, le devo accompagnare e ovviamente poi le devo anche andare a riprendere e accompagnare le altre due amiche a casa. Chiedetemi a che serve fare il padre? È ovvio: serve a fare da tassinaro. In pratica tornerò a casa alle 4 domani mattina… Ventiquattro ore senza dormire. Loro andranno a divertirsi ed io starò col cuore in gola finché non le vedrò venir fuori dalla discoteca… E bravo papi. E zitto papi.

Nella mia testa, nei mie occhi, nelle mie mani.

Nella mia testa ho accolto libri di ogni genere, testi di canzoni e musica (quella perfortuna non di ogni genere), nella mia testa risuona chiaro il rombo della prima Harley che sentii arrivare da lontano. Nella mia testa ci sono nozioni di ogni genere, piccole perle che è molto probabile io non dovrò usare mai. Nei miei occhi ci sono gli occhi di quell’uomo zoppicante che cammina su un marciapiede di Algeri, e alle sue spalle la scritta FIS su un muro pieno di fori di proiettili. Nei miei occhi è rimasta quella poderosa nevicata del 1993 ai piedi dell’Himalaya, che coprì fino al tetto le piccole baracche di lamiera e terra del villaggio di Sarahan. Nei miei occhi i tramonti africani, la cosa più bella che possa esistere e che si dato di ammirare ad un uomo. Nelle mie mani un bicchiere di Jack Daniel’s e una sigaretta che si sta consumando da sola, con la cenere che sfida la legge di gravità e si rifiuta di cedere e cadere. Nelle mie mani c’è una tavola di legno di teck che dovrò levigare e sulla quella tavola, chissà, delle mani piene di voglia incideranno un disegno. Nella mia testa risuona il silenzio assordante di quella notte in quella casa vuota e triste. Nella mia testa il suono del mio respiro e il sommesso rumore dei miei passi ogni qualvolta ero costretto a non farmi sentire, con tutto l’armamentario attaccato alla divisa che non ne voleva sapere di collaborare. Nelle mie mani il telecomando che fa zapping per cercare quel film in tv che mi faccia tornare in mente tutte le battute. E così passo un’altra notte. In attesa del sonno. Già presente nella mia testa.

Tempo e filo da torcere.

Abbiamo tempo per fare qualsiasi cosa. Abbiamo tanto tempo per scegliere, decidere, valutare, contrattare, indietreggiare, attaccare, fare, pensare, agire, dare e avere. Ne abbiamo a volontà per crescere e maturare. O forse non ne abbiamo abbastanza. A qualcuno spetta più tempo, ad altri, per mille motivi, ne è dato meno. La differenza la fa solo ed unicamente come decidiamo di utilizzare quel tempo che secondo dopo secondo passa e se ne va. L’avere del tempo ci lascia anche spazio e dobbiamo saperlo usare, è da idioti buttarlo dalla finestra. Perché questa bestia che va via poi non torna. E allora occupiamolo bene, il nostro tempo: leggiamo, capiamo, combattiamo per quello che vale davvero, godiamocela, parliamo, facciamo sesso a volontà, sorridiamo, riempiamoci di debiti (più ne hai e più ti augurano di campare), pensiamo, voliamo con la fantasia o magari facciamolo davvero, visitiamo luoghi che neanche le cartoline, respiriamo a pieni polmoni ogni profumo che che ci arriva quando alziamo la visiera del casco a ottanta all’ora sulle nostre Harley, approfittiamone, diamo una mano. Perché il casino vero è che le lancette continuano a scorrere inesorabili, la battaglia contro il tempo non la possiamo vincere né ora né mai. Ma possiamo dargli del filo da torcere. Ed io ho intenzione di dargliene tanto.

Porta e schiva la morte

Il monologo di Quint, il pescatore che aveva accettato di dare la caccia al predatore nel film “Lo Squalo”

Un sommergibile giapponese ci mise due siluri dentro la pancia. Stavamo tornando dall’isola di Tinian, avevamo portato la bomba, quella che scoppiò a Hiroshima. 1.100 uomini finirono in mare… la nave affondò in 12 minuti. Il primo squalo si fece vivo dopo una mezz’ora, un tigre di 4 metri. Sai da cosa ti accorgi se uno squalo è grosso quando sei in acqua? Dalla distanza fra la pinna dorsale e la coda.
Noi non lo sapevamo, ma la nostra missione era talmente segreta che non era neanche stato mandato l’S.O.S. Per una settimana non si accorsero che eravamo spariti. Insomma, alle prime luci cominciarono ad arrivare gli squali. Noi ci eravamo riuniti in gruppi stretti, una specie di quei quadrati che si fanno nelle battaglie, quelli che si vedono nelle stampe della battaglia di Waterloo.
L’idea era che quando uno squalo si avvicinava a un uomo, quello si mettesse ad agitare l’acqua gridando a squarciagola. Qualche volta lo squalo se ne va, qualche volta non se ne va per niente, ti fissa dritto negli occhi. Sai che cos’hanno di strano gli squali? Hanno degli occhi senza vita, sono palle nere senza luce dentro, e quando qualcuno ti si avvicina non credi neanche che sia vivo, finché non ti morde.
Quelle palle nere cominciano a roteare e poi… a un tratto senti un urlo acutissimo e terribile, e l’acqua intorno diventa rossa… e in mezzo a quella schiuma e a quel casino ti arrivano tutti addosso… e cominciano a farti a pezzi. Insomma, quella prima mattinata perdemmo 100 uomini. Non so quanti fossero, forse 1.000 squali, si mangiavano una media di 6 uomini ogni ora.
Giovedì mattina capitai accanto a un mio amico, un certo Harby Robinson, di Cleveland, un giocatore di baseball, era il nostromo… Credevo che dormisse… allungai un braccio per svegliarlo e lui si capovolse come una specie di trottola galleggiante… era a metà.
Eh sì, se l’erano mangiato vivo dalla cintola in giù. A metà del quinto giorno, un Lokid Ventura ci avvistò, passò a bassa quota e ci vide, era un pilota giovane, molto più giovane del signor Hooper. Comunque ci avvistò e venne a guardare, e tre ore dopo arrivò finalmente un grosso PTY che cominciò a raccoglierci… e vi giuro che quello fu il momento in cui ebbi più paura mentre aspettavo il mio turno.
Non mi metterò più un salvagente addosso. Insomma, eravamo finiti in mare in più di 1.000 e uscimmo in 316, gli altri se li erano mangiati gli squali, era il 29 giugno del ’45. Comunque, avevamo consegnato la bomba.

Ogni maledetta domenica.

Il monologo di Al Pacino

Non so cosa dirvi davvero. Tre minuti alla nostra più difficile sfida professionale. Tutto si decide oggi. Ora noi o risorgiamo come squadra o cederemo un centimetro alla volta, uno schema dopo l’altro, fino alla disfatta. Siamo all’inferno adesso signori miei. Credetemi. E possiamo rimanerci, farci prendere a schiaffi, oppure aprirci la strada lottando verso la luce. Possiamo scalare le pareti dell’inferno un centimetro alla volta. Io però non posso farlo per voi. Sono troppo vecchio.
Mi guardo intorno, vedo i vostri giovani volti e penso “certo che ho commesso tutti gli errori che un uomo di mezza età possa fare”. Si perché io ho sperperato tutti i miei soldi, che ci crediate o no. Ho cacciato via tutti quelli che mi volevano bene e da qualche anno mi dà anche fastidio la faccia che vedo nello specchio. Sapete con il tempo, con l’età, tante cose ci vengono tolte, ma questo fa parte della vita. Però tu lo impari solo quando quelle cose le cominci a perdere e scopri che la vita è un gioco di centimetri, e così è il football. Perché in entrambi questi giochi, la vita e il football, il margine di errore è ridottissimo. Capitelo. Mezzo passo fatto un po’ in anticipo o in ritardo e voi non ce la fate, mezzo secondo troppo veloci o troppo lenti e mancate la presa. Ma i centimetri che ci servono, sono dappertutto, sono intorno a noi, ce ne sono in ogni break della partita, ad ogni minuto, ad ogni secondo.
In questa squadra si combatte per un centimetro, in questa squadra massacriamo di fatica noi stessi e tutti quelli intorno a noi per un centimetro, ci difendiamo con le unghie e con i denti per un centimetro, perché sappiamo che quando andremo a sommare tutti quei centimetri il totale allora farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta, la differenza fra vivere e morire. E voglio dirvi una cosa: in ogni scontro è colui il quale è disposto a morire che guadagnerà un centimetro, e io so che se potrò avere una esistenza appagante sarà perché sono disposto ancora a battermi e a morire per quel centimetro. La nostra vita è tutta lì, in questo consiste. In quei dicei centimetri davanti alla faccia, ma io non posso obbligarvi a lottare.
Dovete guardare il compagno che avete accanto, guardarlo negli occhi, io scommetto che ci vedrete un uomo determinato a guadagnare terreno con voi, che ci vedrete un uomo che si sacrificherà volentieri per questa squadra, consapevole del fatto che quando sarà il momento voi farete lo stesso per lui. Questo è essere una squadra signori miei. Perciò o noi risorgiamo adesso come collettivo, o saremo annientati individualmente. È il football ragazzi, è tutto qui. Allora, che cosa volete fare?

Chi sono io?

Chi sono? Ah, non lo so. Io sono io (ma non sono il Marchese del Grillo anche se è vero che qualcuno di voi non è un cazzo). Sono io, quello che si incazza come una furia e dopo 10 minuti è già tutto apposto. Sono io, quello che conosce a memoria le canzoni di De André e le usava come ninna nanna per le sue figlie. Sono io, quello che non è mai adatto a fare il padre. Sono io, quello che gira in moto con un gilet di pelle addosso, insieme ai fratelli. Io sono quello che conosce perfettamente la differenza tra legge e giustizia. Io sono quello che sbaglia ogni santo giorno (e nonostante questo cammino a testa alta). Chi sono io di solito lo stabiliscono gli altri, a volte sono un bravissimo “ragazzo” e altre volte sono il peggiore degli stronzi. Sono io, quello sempre ignorante in certe cose… E menomale, sai che palle a sapere sempre tutto? Io non sono un tuttologo. Io sono pure quello che a volte ne sa più di tanti altri e che spesso resta in silenzio per non smerdare l’interlocutore. E sono sempre io, quello che altre volte lo sotterra, quel coglione dell’interlocutore… Sono anche tante altre cose, ma inutile stare qui a dirvelo, non capireste. Eppure… Chi sono io? Ditemelo voi, che sicuramente lo sapete meglio di me.